“…Gran, Gran Sasso, che parli con le stelleLe lacrime che asciughi son sempre quelleGrande Sasso, conserva il tuo misteroE ogni sogno fatto lo vivrò davvero…”

Così scriveva il cantautore abruzzese Ivan Graziani. Ascoltando questa canzone e conoscendo i luoghi menzionati, vi assicuro che è una descrizione fedele di quel posto magico che è il massiccio del Gran Sasso: un’unicità geomorfologica paragonabile senza riserve alle maestose Alpi, con il Calderone (l’unico ghiacciaio perenne dell’Appennino) e vette che sfiorano i 3000 metri.

L’Ultra-Trail del Gran Sasso si svolge nel fine settimana di metà luglio ed è articolato in gare di diverse lunghezze. È una competizione relativamente giovane, fondata da Ugo Maria Sansone, un ragazzo teramano appassionato di corsa e di montagna. L’amore per i territori in cui vive e per la corsa lo ha spinto a organizzare questa manifestazione, che si snoda sul massiccio del Gran Sasso con partenza e arrivo a Prati di Tivo, località montana a circa 1500 metri di quota.

Non sono gare semplici e non c’è grande attenzione ai “fronzoli” che spesso attirano il partecipante medio nelle gare di trail running o ultra-trail contemporanee. I ristori sono pochi e spartani, con lo stretto indispensabile, spesso gestiti dagli anziani del posto. Anche i pacchi gara e il tanto agognato premio finisher sono essenziali, e non ci si può aspettare l’organizzazione tipica dei grandi eventi con centinaia di volontari e collaboratori.

Queste caratteristiche peculiari sono chiaramente indicate nel regolamento, dove si evidenziano la ruvidità e l’asprezza (in senso positivo) delle competizioni in programma. In aggiunta, per la gara più lunga da 110 km (quella che ho scelto di correre), viene richiesto un curriculum minimo relativo all’esperienza di gare in montagna, per evitare che partecipino atleti non idonei. A differenza del circuito UTMB, in cui basta possedere le “Running Stones” (acquisibili solo in eventi del medesimo circuito), qui contano esclusivamente le reali capacità ed esperienze maturate in anni di ultra-trail, indipendentemente dall’ente organizzativo.

Come anticipato, ho deciso di cimentarmi nella prova più lunga della manifestazione: circa 110 km con quasi 7000 metri di dislivello positivo. Il format è molto diverso dalle gare classiche: il regolamento specifica che non ci sarà il tradizionale balisaggio del percorso e che i ristori saranno pochi, dotati solo dello stretto necessario. In sostanza, si tratta di una gara in vera autosufficienza, in cui la preparazione e l’esperienza personale fanno davvero la differenza. Anche il materiale obbligatorio è ridotto all’essenziale, quel minimo indispensabile per portare a termine un’avventura del genere.

Come se non bastasse, nella stessa settimana della gara dovevo recarmi in Calabria per una prova concorsuale nazionale per l’insegnamento scolastico. Mi aspettava quindi un viaggio attraverso l’Italia: sono partito dalle Marche il martedì, in direzione Calabria, portando con me tutto ciò che mi sarebbe servito per affrontare una delle settimane più calde e, se vogliamo, più insolite dell’anno. Per comodità e per la logistica degli spostamenti ho viaggiato in auto con mio padre. Lungo la strada verso il profondo Sud, le temperature superavano senza problemi i 40 °C.

Ho affrontato la prova concorsuale con relativa tranquillità, sapendo di essere solo a metà settimana e che il “mostro” finale mi aspettava tra le vette del Gran Sasso. Terminata la prova orale, sono ripartito subito in direzione Abruzzo, dove mi attendeva una notte di riposo prima della partenza della gara da 110 km. Sono arrivato a Prati di Tivo in serata, giusto in tempo per cenare e riorganizzare i bagagli, “separando il grano dalla crusca” (non volevo certo ritrovarmi nello zaino di gara libri e PC!).

La mattina successiva ho dovuto lasciare la camera dove avevo dormito; di conseguenza, ho portato tutti i miei bagagli sotto un albero nei pressi della partenza e ho atteso con pazienza le 15, ora stabilita per il via. In tutta questa frenesia, mio padre è giustamente rientrato a casa, lasciandomi solo a Prati di Tivo, a metà luglio, sotto un sole cocente, dopo un viaggio interminabile, in attesa di una “rilassante” gita in montagna.

Ho riflettuto a lungo su queste scelte e, nonostante l’apparente follia o masochismo, non rimpiango nulla. Per quanto possano sembrare decisioni scellerate, le rifarei tutte.

Finalmente, dopo un’attesa che pareva infinita, la gara è partita. Eravamo davvero pochi atleti, se ricordo bene 36. Molti non sarebbero arrivati al traguardo, alcuni avrebbero concluso in tempi “supersonici” e i pochi rimasti (tra cui io) si sarebbero immersi in un viaggio in cui il tempo e lo spazio sembrano fermarsi, in stile Interstellar o Inception.

Al di là di queste suggestioni, la realtà dell’ultra-trail in totale autosufficienza è dura: sei responsabile di te stesso al 100% e se commetti un errore lo paghi caro. Poco dopo la partenza ho iniziato ad avere problemi intestinali e, con precisione svizzera, sono stato costretto a fermarmi di continuo per assecondare un intestino particolarmente poco collaborativo. Questo inconveniente mi ha accompagnato per circa metà gara, finché non ho iniziato a stare meglio.

Tuttavia, come se non bastasse, è subentrato un fastidioso dolore alla bandelletta, di cui soffro spesso, che mi ha colpito proprio nella parte più impegnativa del percorso: due salite interminabili, con il ginocchio in fiamme a ogni passo in discesa, dove il carico è maggiore.

Dopo circa 25 ore di gara ho finalmente fatto ritorno alla “civiltà”, dove mi attendevano la mia compagna e la fidata cagnolona Zelda, che non vedevo da una settimana. Al netto dei problemi fisici — che in attività come questa fanno parte del gioco — porto a casa un’esperienza unica, in cui ho conosciuto persone singolari, come un istruttore della Scuola Carabinieri specializzato in ultrarunning e ultra-trail con cui ho condiviso molti chilometri. Insieme ci siamo sostenuti nei momenti difficili e nella navigazione GPS.

Un’ulteriore peculiarità di questa gara è stata infatti la navigazione, affidata unicamente a una traccia GPS. Non avevo mai affrontato da solo un percorso così lungo, fidandomi soltanto del mio orologio. Ammetto che non è affatto semplice né scontato, specialmente nel sottobosco, dove i sentieri e i segnavia del CAI possono risultare poco evidenti.

Un’altra caratteristica distintiva della gara è stato l’attraversamento dei “boschi vetusti”: antiche foreste di faggi, testimoni di una natura incontaminata, in cui si respira una biodiversità straordinaria e che, non avendo subito alcun intervento antropico, sono state riconosciute come patrimonio UNESCO.

Un’avventura dura, autentica, ma che rifarei senza esitazioni.